Forse non è ben noto che la molecola che ha azione
conservante ha un’azione di killer sulla cellula batterica.
La cellula.
Però è un killer poco selettivo e per lui cellula è sempre
cellula, che sia batterica che sia della pelle.
Quindi la buona pratica suggerisce di utilizzare un
conservante che sia attivo sul batterio, (Gram+, Gram -), fungo o lievito, alla
minor dose possibile.
Capita di leggere in etichetta “senza conservanti”.
A meno che il prodotto non sia in una confezione monodose, è
impossibile o incosciente.
Un prodotto deve essere sicuro anche dal punto di vista
microbiologico, ma non nell’istante, anche nel periodo.
A meno che non voglia mettermi addosso una crema con muffa,
batteri di ogni tipo e genere, e magari anche un crotalo vagante.
E comunque, se proprio il cosmetologo non aggiunge
conservanti, perché ritiene che i conservanti utilizzati dai produttori di
materie prime per preservare gli ingredienti siano in quantità sufficiente per
preservare il prodotto finito, che almeno si abbia la decenza di riportarli
nell’INCI.
Aver introdotto conservanti con la materia prima non esime da mettere nella lista INCI, perché che siano stati messi volontariamente o
per caso con l’ingrediente, quei conservanti CI SONO.
Infatti, se abbiamo visto che la lista INCI contiene
l’ingrediente così come inserito nel prodotto, vuol dire l’ingrediente + tutto
il resto che contiene, con distinzione fra impurezze da processo produttivo (nell’ordine di ppm, parti per milione!) e sostanze aggiunte all’ingrediente per
qualsivoglia motivo (conservante, stabilizzante, antiirrancidimento).
Infatti quando si fa entrare in azienda una materia prima,
questa deve avere la scheda di sicurezza, la scheda tecnica (che vale per quel
prodotto, per sempre, fatto salvo la scoperta o lanecessità di nuove informazioni per cui
deve essere aggiornata) e il certificato di analisi batteriologico (che vale
solo per quel lotto).
Il cosmetologo legge la scheda tecnica e vede subito che
l’ingrediente X è al 99% e l’1% è un qualcos’altro: conservante, stabilizzante,
ecc.
Per cui sa anche bene che se mette l’1% di
quell’ingrediente, in realtà inserisce una miscela di ingredienti, di cui il
99% è l’ingrediente che gli interessa, e che l'1% è altro, magari il
conservante della materia prima, e che nel suo prodotto finito non avrà l’1% di
ingrediente, ma 0,9% con lo 0,1% di conservante.
Quindi nel conteggio del conservante deve considerare quello
0,1% di conservante inserito “non volontariamente”.
Se la legge pone limite all’impiego di un dato conservante Y,
ipotizziamo lo 0,3%, il formulatore non può stendere la struttura della sua
formula con tutti gli ingredienti partendo dal presupposto che siano pure al 100%, e poi piazzare “conservante Y=0,3%".
Eh no! Perché con qualche ingrediente può aver introdotto
già una piccola quantità di conservante che concorre a comporre la % limite di
legge.
Per cui deve considerare che un tot ci è entrato con
l’ingrediente A, un tot con l’ingrediente B, un tot con l’ingrediente C per un
totale, ad esempio, di 0,05% e la sua aggiunta deve essere quindi ricalcolata: 0,3 – 0,05 =
0,25%.
Quindi, che piaccia o no, ogni cosmetico contiene una certa
quantità, più o meno volontaria, di conservante. Se non ce l’ha, meglio non
aprire quel vasetto.
Se la necessità di conservante (se lo chiamassimo
preservante, fosse la sua funzione sarebbe percepita come positiva, quale è in
effetti) è indiscutibile, quello su cui si può ragionare è invece su quale
conservante usare.
Quando le piccole chimiche hanno cominciato negli anni ’80 la
loro carriera, si usava il Kathon (che era una miscela di metilclorotiazolinone
+ metilcloroisotiazolinone). Era considerato il miglior conservante all’epoca, però
già in qualche Paese non era consentito: ad esempio il Giappone imponeva i
Parabeni (metilparabene e propilparabene).
Una serie di segnalazioni di allergie provocate da cosmetici
ha fatto ritenere il Kathon responsabile, per cui si è poi passati ai parabeni,
che erano approvati anche dall’agenzia del farmaco negli iniettabili anche per
via endovenosa: se ci si faceva un’iniezione di Voltaren in vena, ci si sparava
anche un po’ di parabeni. Passava la colica renale e non si moriva per il
parabene. Per cui si avevano ragionevoli certezze di efficacia preservativa e
limitatezza di reazioni avverse.
I parabeni oggi sono accusati di essere la causa dei mali
del mondo, ma non è esattamente così.
Intanto nel cosmetico si usano di
preferenza il metile e il propile, mentre qualche dubbio sulla sicurezza si ha
su molecole più lunghe o ramificate.
Dire parabeni è come dire pasta: Quanti tipi di pasta
esistono? Infiniti, se poi aggiungiamo anche tortelli e ravioli, veramente non
ci basta una vita a contarli.
Per i parabeni è la stessa cosa: è una classe di infiniti
composti, ognuno dei quali ha un suo comportamento in funzione della catena di
carbonio che è attaccata all’anello di benzene (quello che graficamente si
disegna come un esagono con dentro un cerchio o con doppie righe alternate
lungo i lati dell’esagono) in posizione para
(esistono anche la posizione meta e orto, ma non ci riguardano),
Quindi dire “i parabeni” è come dire “la pasta”.
Si legge che i parabeni sono (con la certezza che
contraddistingue i soliti allarmisti integralisti) ritenuti provocare il cancro
al seno.
Nella realtà, non è così. Tanto che, proprio per verificare
questa ennesima bufala, il CIR (cosmetic ingredient review) li ha risottoposti
ad analisi ed è giunto alle conclusioni che non ci sono correlazioni fra il
metilparabene e il propilparabene contenuti nei cosmetici e il cancro al seno.
Infatti ha ritenuto opportuno segnalare alla Commissione
Europea di controllo che non è necessario rivedere al ribasso le concentrazioni
massime consentite nel cosmetico che sono rispettivamente dello 0, 4 di un
estere e lo 0,8% per miscele esteri (paraminobenzoati, confidenzialmente
parabeni).
Viceversa, sempre il CIR, ha richiesto un approfondimento
per il propil e l’isoporpil parabene per potere emettere la sua opinione
riguardo a eventuali modifiche di limiti di concentrazione.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che l’uso dei metil e
propil parabene entro le concentrazioni di legge non solo è ovviamente
consentito, ma che è ritenuto sicuro.
Però.
Però esiste il buon senso e il principio di cautela.
Il
fatto che un ingrediente sia consentito all’X%, non obbliga affatto ad
utilizzarne l’X%.
Se, previ opportuni test di efficacia del conservante, nel
mio prodotto ne basta la metà di X, perché dovrei metterci tutto X?
Inoltre, se un ingrediente crea sospetto, e ne esiste un
altro altrettanto efficace, ma davvero altrettanto efficace, perché dovrei
continuare ad usare quello sospetto?.
Esistono poi le eccezioni: poniamo che il cosmetologo sia
orientato verso conservanti diversi dai parabeni. Può sostituire i parabeni in
qualunque prodotto indiscriminatamente? No.
Innanzitutto bisogna vedere quale sistema conservante adotta
per l’alternativa ai parabeni, a quali quantità garantisce l’efficacia, a che
pH potrebbe, magari, attivarsi o disattivarsi.
Se il conservante “alternativo” dà garanzie a concentrazioni
ragionevoli, in relazione alle altre caratteristiche del prodotto, lo si usa,
altrimenti si resta ai parabeni.
Il caso limite è quello dei fanghi o dei bagni d’alghe: il
fango (come il bagno d’alghe) è un terreno di coltura magnifico per tanti ceppi
di microorganismi, per cui, visto che i parabeni, entro le percentuali limitate
dalla legge, garantiscono la preservazione, li userà.
In caso contrario, il nostro fango diventa come quello del
delta del Po, con anguille e capitoni (per capirsi ovunque) che sguazzano alla
grande.
Oppure ancora, per evitare di diventare allevatori ittici,
dovremo mettere tali quantità di conservante alternativo che si rischia di fare
un fango con una concentrazione al…. 15% di conservanti.
Ora, siccome dosis facit ut venenum non sit, il nostro
cosmetologo preferisce pochi parabeni a tonnellate di altro che magari a quelle
quantità può diventare fattore di rischio.
La cosmetologia è sempre stata comunque alla ricerca di
conservanti alternativi ai parabeni, fin dagli anni ’90 quando si presentarono
all’orizzonte gli estratti di semi di pompelmo che sembravano risolvere tutto.
Invece non hanno risolto un bel niente, perché l'estratto di seme di pompelmo in realtà
conteneva una importante quantità di altri conservanti di sintesi (incluso il
triclosan).
Poi c’è stata la mania del caprifoglio, la Lonicera Japonica,
che però conserva perché contiene…. parabeni.
Anche se poi chi lo produceva ha asserito che no, non era
proprio acido aminobenzoico (da cui derivano i parabeni), ma acido salicilico.
Fra l’altro una ricerca dell’Università di Genova ha
evidenziato nel campione di Lonicera
sottoposto a test era presente formaldeide. Magari è stato un caso, di
quel campione.
Però un buon cosmetologo non può usare un ingrediente di cui
non sa il contenuto, le peculiarità, da dove viene, come viene estratto, le
esatte funzioni e a che percentuale può o deve essere usato, ecc.
Quindi, parabeni no, lonicera no , pompelmo tanto meno… come
conservare un prodotto cosmetico?
Un buon conservante è il mix di alcol benzilico, potassio
sorbato e sodio benzoato, coadiuvato con un poco di fenossietanolo, ma proprio
pochissimo, per garantire la massima sicurezza di preservazione.
Attenzione però, perché se l’alcol benzilico ha buoni poteri
conservanti, è comunque inserito nella lista dei 26 allergeni.
Come sempre, il buon senso dice come comportarsi, sottoponendo
il prodotto al test di efficacia del sistema conservante. Diventa quindi sempre
più importante sottoporre il prodotto a un challenge test che certifichi che si
ha un sistema microbiologicamente efficace alle dosi minori possibili.
Se poi si ha l’accortezza di confezionare il prodotto con un
packaging che lo isoli il più possibile dal contatto con l’esterno (mani,
ambiente), la quantità di conservante da impiegare viene ridotta sempre più.
E’ evidente che il farmacista nel laboratorio può fare un
cosmetico senza conservanti da conservare in frigo per 4-5 giorni, ma è
altrettanto evidente che l’industria che magari poi esporta il suo prodotto in
Paesi dal clima avverso, tipo equatoriale, caldo umido, non può permettere che
il suo prodotto si inquini.
Alla fine la domanda da porsi è: preservo il prodotto in
modo da evitare che il mia crema diventi un terreno di coltura, o faccio
correre al consumatore il rischio di mettersi sulla pelle una colonia di vibrioni, ma è
contento perché non ci sono conservanti?.
Il cosmetologo la risposta la sa.
Così come sa benissimo che, in un modo o nell’altro, il suo
prodotto è conservato anche se il commerciale mette in etichetta “senza
conservanti”.
Infatti, al limite, si dovrebbe scrivere “senza conservanti riportati
nell’Allegato 5 della legge”.
Nell’allegato 5 c’è la lista delle sostanze classificate
come conservanti.
Poi esistono sostanze, come l’alcol etilico e altre, che
hanno un potere conservante ma non sono nell’allegato 5, cioè non sono
classificate esplicitamente come conservanti pur avendo anche tale azione.
Anche i produttori di materie prime si stanno attrezzando per conservare i loro
ingredienti con conservanti non classificati nell’allegato 5.
Perciò un prodotto che contiene queste sostanze è
conservato? Sì.
Da conservanti classificati come tali? No.
Ma contiene sostanze che agiscono come conservanti con lo
stesso meccanismo sulla cellula con cui agiscono i conservanti classificati?
Sì.
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